Ridateci il sottosuolo. Un angolo buio che puzzi pure di rabbia, di delusione, di umiliazione. Ma fateci scendere da questa terrazza.
Suonerà più o meno così, la preghiera dell’uomo che verrà?
A proposito di terrazze, c’è chi, ad esempio, in piena emergenza Coronavirus, viene sorpreso a Palermo nel corso di una grigliata, sul tetto del proprio palazzo. Una scena ripresa in video e rimbalzata sui social network e sui media tradizionali. Pochi giorni dopo, l’uomo aveva un agente che curava la sua immagine. Nessun imbarazzo, anzi: era già un personaggio.
Questo fa l’uomo del presente, l’uomo d’azione. Coglie l’occasione al volo, la cavalca, la rende storia da masticare e sputare presto via, come un chewing gum. Lo impone il mondo del “sempre in onda”. Altro che il povero Fedor, o, meglio, il suo alter ego avvelenato dalla solitudine e dalla cattiveria, dentro una vestaglia a brandelli.
Eppure, ecco il paradosso di oggi: il terribile sottosuolo delle Memorie rischia di apparire, tra un po’, come un luogo da agognare. L’unico nel quale l’uomo possa ancora riflettere su se stesso, guardarsi dentro, in controtendenza rispetto al moderno “guardarsi fuori”.
In cambio di questa parvenza di successo, di popolarità, infatti, siamo stati estratti dalle nostre case ed esposti su terrazze virtuali. Non c’è verso di sfuggire, del resto, alle logiche della sorveglianza alle quali noi stessi aderiamo. E così, ci guardiamo dall’alto all’alto, ci scoviamo sui motori di ricerca, ci spiamo, ci intercettiamo. E, assorbiti da questo impegno, non abbiamo più il tempo di ruminare pensieri. Ci restano i titoli, gli slogan, la pubblicità. L’esito è evidente ovunque, dalla tv alla politica.
Ma potrebbe non essere tutto qui. Anzi, fa capolino un dubbio: possibile che ciò che intravide Dostoevskij dal suo sottosuolo in realtà non sia ancora giunto? “Tutte le azioni umane, va da sé, – scriveva quasi 160 anni fa – allora saranno calcolate secondo queste leggi, matematicamente, sul tipo di una tavola di logaritmi fino a 108 000, e inscritte nel calendario”. Seduce l’assonanza tra i logaritmi delle Memorie del sottosuolo e gli algoritmi che oggi guidano, ordinano (in ogni senso), suggeriscono.
Su quella terrazza, in effetti, spesso finiamo per trasformare la nostra libertà in un appiccicoso conformismo: postiamo per farci vedere, commentiamo perché dobbiamo esserci, ed essenzialmente, cerchiamo di piacere. Dobbiamo farlo, ormai. Sempre più velocemente, sempre “in diretta”. Fino a che punto, però, ci spingeremo? E siamo certi che prima o poi tutto ciò non diventerà insopportabile?
“Noi sentiamo – si legge nel finale delle Memorie – perfino il peso di essere uomini: uomini con un autentico e nostrocorpo e sangue; ce ne vergogniamo, lo consideriamo come un disonore e cerchiamo di essere non so che immaginari uomini universali”. Una volta, almeno, questa consapevolezza affiorava dalle profondità della mente di chi “conosce troppo”. Oggi, invece, sulle terrazze eteree della rete non c’è più nemmeno il tempo di accorgersi di noi stessi, delle nostre debolezze, delle nostre contraddizioni.
Finiremo per rimpiangere il buio, spaventoso sottosuolo?
Accursio Sabella
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